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Il revival del nucleare, dai mini-reattori ai giganti tech

Il revival del nucleare, dai mini-reattori ai giganti tech

Nel mondo ci sono oltre 420 reattori attivi e la produzione di energia nucleare è ai massimi storici. Tra mini reattori e impianti riaccesi per alimentare i data center, il settore vive un nuovo slancio. Ma c’è chi teme che si riveli una bolla.

Dopo anni di silenzio, il nucleare torna al centro delle strategie energetiche globali. Spinto dall’evolversi delle nuove tecnologie, da un clima politico apparentemente più favorevole e dalla necessità di soddisfare il gigantesco fabbisogno energetico dei data center. Ma i punti di domanda restano tanti e cruciali.

Si avvicina una nuova era del nucleare? Se lo chiede l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), analizzando le dinamiche di una fonte che plausibilmente nel 2025 raggiungerà un record storico in termini di produzione.

Oggi nel mondo sono attivi circa 420 reattori che hanno una capacità complessiva di circa 370 GW e producono quasi il 10% dell’energia elettrica totale: tra le fonti a basse emissioni di CO2, soltanto l’idroelettrico raggiunge una percentuale più alta. Altri 63 sono in costruzione, con una capacità di 70 GW aggiuntivi. Considerando gli investimenti per i nuovi impianti e quelli per estendere la vita operativa dei reattori esistenti, si superano i 60 miliardi di dollari nel 2023: quasi il 50% rispetto al 2020.

È un mercato fortemente concentrato in cui Cina e Russia, da sole, hanno progettato quasi la totalità delle nuove costruzioni avviate tra il 2017 e il 2024. Proprio la Cina guadagna progressivamente terreno, preparandosi a scalzare Unione europea e Stati Uniti in termini di capacità installata entro il 2030. Guardando invece al peso del nucleare sull’elettricità generata in ogni singolo Paese, la Francia domina con una percentuale del 65%.

L’energia nucleare può derivare da due processi: fissione e fusione. Oggi l’intera produzione si basa sulla fissione, cioè la scissione di atomi pesanti – come uranio-235 o plutonio-239 – che libera calore da convertire in elettricità. Questo processo avviene all’interno di reattori di diverse tipologie.

I più diffusi sono quelli ad acqua pressurizzata (PWR) e quelli ad acqua bollente (BWR), in cui l’acqua svolge due funzioni: rallenta i neutroni per mantenere stabile la reazione a catena (moderatore) e assorbe il calore generato nel nocciolo per produrre vapore (refrigerante). I più comuni (circa 300 nel mondo) sono i PWR, che usano due circuiti separati per evitare che l’acqua contaminata entri in contatto con la turbina. I BWR, come quello – tristemente noto – di Fukushima Daiichi in Giappone, producono invece il vapore direttamente all’interno del reattore, con un circuito unico.

I reattori ad acqua pesante (PHWR), invece, riescono a impiegare come combustibile l’uranio naturale – non arricchito – grazie all’uso di acqua contenente deuterio. Così facendo, riducono i costi. Il modello più noto è il CANDU, diffuso in Canada, India e Romania. Un’altra famiglia è quella dei reattori raffreddati a gas (GCR o AGR), sviluppati soprattutto nel Regno Unito: usano anidride carbonica come fluido refrigerante e grafite come moderatore, garantendo temperature di esercizio più alte e quindi un miglior rendimento termico.

Infine, alcuni progetti più avanzati – come i reattori veloci a metallo liquido (LMFR), che impiegano sodio o piombo fuso, o i reattori a sali fusi (MSR), dove il combustibile è disciolto in sali liquidi – mirano a riciclare le scorie radioattive e a ridurre al minimo il rischio di fusione del nocciolo. Per ora, sono ancora in fase di sperimentazione.

Parlando di sperimentazione è impossibile non citare i mini reattori (noti anche come SMR, dall’inglese small nuclear reactors), al centro di un interesse crescente anche in Italia. La promessa è quella di abbattere i costi e i tempi di costruzione degli impianti, tuttora tra i principali ostacoli alla loro diffusione. La strategia è quella di non costruire ex novo l’impianto, bensì fabbricare in serie più reattori modulari di piccola taglia (dai 10 ai 300 megawatt ciascuno), facili da trasportare anche in zone remote. Per incrementare la capacità produttiva, basta aggiungere più unità.

Questa tecnologia è ancora ben lontana da una diffusione su vasta scala, testimoniano i dati dell’Agenzia internazionale per l’energia. L’Italia la tiene però in grande considerazione, anche per via di esperienze imprenditoriali promettenti. Come Newcleo, fondata dal fisico Stefano Buono, che ha raccolto oltre 540 milioni di euro di capitali privati e ha siglato – tra gli altri – un accordo con la californiana Oklo, partecipata dal fondatore di ChatGPT Sam Altman. O Terra Innovatum, guidata da Alessandro Petruzzi, che dal 17 ottobre 2025 è quotata al Nasdaq. Sempre nel 2025 è nata Nuclitalia, una newco focalizzata sui mini reattori modulari, partecipata da Enel (con il 51% delle quote), Ansaldo Energia (39%) e Leonardo (10%).

Se tutti i reattori attivi si basano sulla fissione è perché la fusione controllata, cioè quella gestita dall’uomo, non è ancora praticabile. La fusione è il processo che avviene naturalmente nelle stelle, incluso il Sole, in cui due nuclei leggeri (in genere isotopi dell’idrogeno come deuterio e trizio) si uniscono per formarne uno pesante, rilasciando una grande quantità di energia. Per farlo servono però temperature e pressioni estreme – dell’ordine di milioni di gradi – che consentano ai nuclei di vincere la loro naturale repulsione elettrica.

Nei reattori sperimentali sulla Terra, questo plasma rovente viene confinato con campi magnetici potentissimi (nei cosiddetti Tokamak o Stellarator) o, in alternativa, compresso tramite impulsi laser ad altissima intensità. In teoria è un processo pulito, sicuro e con combustibile quasi inesauribile; in pratica, dopo decenni di tentativi e miliardi di investimenti, nessuno è ancora riuscito a renderlo stabile e redditizio.

Se ultimamente si dibatte molto del nucleare è anche perché i data center, cioè le infrastrutture fisiche che rendono possibili i servizi digitali, sono in forte espansione per via della crescita dell’intelligenza artificiale. Sono sistemi sempre in funzione ed estremamente energivori. Il loro impatto è evidente non tanto sui consumi globali (nel 2024 ne hanno assorbita una quota dell’1,5%, quindi ancora piccola, seppure in crescita) ma anche e soprattutto a livello locale. Concentrandosi su specifiche aree geografiche, infatti, il loro sviluppo mette sotto pressione le reti elettriche, con il rischio di blackout e aumenti dei costi.

La soluzione prospettata soprattutto negli Stati Uniti è quella di affidarsi alle centrali nucleari. Anche rimettendole in funzione dopo diversi anni di inattività, come nel caso di Three Mile Island (in Pennsylvania), teatro nel 1979 del più grave incidente nucleare della storia statunitense. Oppure di Duane Arnold, in Iowa, chiusa dal 2020 perché era venuta meno la sostenibilità economica. Secondo Bloomberg Intelligence, solo negli Stati Uniti gli investimenti nell’energia nucleare arriveranno a 350 miliardi di dollari entro la metà del secolo, facendo incrementare del 63% la produzione dei reattori. Se queste stime si concretizzassero, la flotta arriverebbe a 159 gigawatt: 53 in più rispetto alla sua capacità attuale.

Il settore, insomma, è frenetico. A tal punto che c’è chi si chiede se possa rivelarsi una bolla destinata a scoppiare. Nel 2024 i fondi di private equity e venture capital hanno investito le cifre più alte di sempre nelle società che si occupano delle cosiddette tecnologie nucleari di nuova generazione: in un singolo anno, il valore delle operazioni ha superato quello dei quindici anni precedenti messi insieme.

Un’impennata che è il combinato disposto della crescita dell’intelligenza artificiale e dell’avversione all’energia solare ed eolica da parte dell’amministrazione di Donald Trump. La prima, però, ha dinamiche rapide e imprevedibili; e non è da escludere che possa rallentare dopo questo periodo di euforia generale. La seconda ha pur sempre un orizzonte temporale limitato, perché il secondo e ultimo mandato di Trump termina nel 2028.

Questi enormi flussi finanziari si indirizzano verso aziende che, per la natura stessa di questa tecnologia, dovranno lavorare ancora per anni prima di immettere in rete l’energia promessa. Un caso particolarmente eclatante è quello della già citata Oklo, al centro delle attenzioni del Financial Times perché, nonostante una valutazione da 20 miliardi di dollari, non ha “nessun ricavo, nessuna licenza per gestire reattori e nessun contratto vincolante per fornire energia”.

Ciò non significa che il nucleare di nuova generazione sia necessariamente una causa persa. È un settore che ha delle potenzialità ma deve pur sempre scontrarsi con limiti strutturali, legati ai costi, alla complessità delle tecnologie, alle catene di approvvigionamento limitate, alla burocrazia. Elementi che vanno presi in considerazione, prima che la corsa all’atomo perda il contatto con la realtà.

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