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Parigi dice basta alla fast fashion, ma uno dei colossi cinesi apre alle Galeries Lafayette

Parigi dice basta alla fast fashion, ma uno dei colossi cinesi apre alle Galeries Lafayette

Fino a 10 mila capi di abbigliamento caricati ogni giorno sulle piattaforme. È questo il trend di produzione dei due colossi cinesi protagonisti dell’ultra-fast fashion. Uno dei business più inquinanti al mondo: la moda a prezzi stracciati in vendita sui canali online che di sostenibile non hanno nulla. Milioni di lavoratori impiegati nella confezione di capi di abbigliamento, prodotti in condizioni precarie in Bangladesh, India e Vietnam e messi sul mercato a meno dieci euro. I loro salari? Inferiori al minimo vitale. Nel 2024, in media uno stipendio si aggirava sui 90 dollari al mese. Eppure il giro di affari che riguarda la fast-fashion è intorno ai 125 miliardi di dollari all’anno.

Francia, la prima legge

Un modello consumistico ed economico che da tempo attira su di se critiche per il forte impatto ambientale e sociale. Soprattutto si discute quali regole imporre ai colossi come Temu e Shein. Non è così semplice, visto che se ne sta occupando anche la Commissione europea con la proposta di riforma del codice doganale. A livello di singoli stati, invece è stata la Francia a muoversi per prima varando una legge anti fast-fashion che introduce una tassa ambientale con l’obiettivo di penalizzare le produzioni inquinanti e le ingiuste condizioni di lavoro; un eco-score per valutare l’impatto dei capi (emissioni, risorse utilizzare, riciclabilità); previsto il divieto di pubblicità delle marche dell’ultra fast-fashion e della promozione tramite influencer per questi brand. Fino alla decisione presa dal Ministero delle Finanze di bloccare l’accesso al sito e-commerce di Shein ritenuto colpevole di aver messo in vendita bambole gonfiabili con sembianze di bambini.

Il primo negozio permanente Shein nel Marais

Nonostante le proteste e l’indignazione (sono state raccolte 120 mila firme), il gruppo Shein è riuscito ad aprire ugualmente il suo primo negozio permanente nel cuore di Parigi alle Galeries Lafayette. L’operazione è stata possibile proprio per la partecipazione della Société des grands magasins, che gestisce l’insegna Bhv e in franchising alcuni store delle Galeries. Obiettivo: attirare clienti al centro commerciale.

Ad assistere all’inaugurazione del suo primo negozio fisico (altre aperture sono previste a Digione, Grenoble, Reims, Limoges e Angers nella Valle della Loira) decine di manifestanti accampati davanti ai grandi magazzini. Proteste che non hanno però scoraggiato la folla di acquirenti. Quindi sito bloccato, ma negozio preso d’assalto da curiosi e fan del marchio che si sono messi in fila per acquistare. Tra loro, molti giovani.

Il “Green Gap” dei giovani consumatori

C’è chi in questo comportamento vede una contraddizione tipica della cosiddetta GenZ, ossia una generazione che se da una parte crede nei valori ecologici, dall’altra non sembra metterli in pratica in modo coerente. Un sondaggio del 2024 lo metteva nero su bianco: il 75% dei giovani europei si diceva preoccupato per il cambiamento climatico, ma solo il 22% dichiarava di aver ridotto concretamente i propri acquisti di moda. Spesso infatti le intenzioni ecologiche si scontrano con le abitudini al consumo e soprattutto le possibilità economiche. Ad esempio, molti considerano che l’alternativa sostenibile di una t-shirt, che nel fast-fashion è in vendita a 7 euro, costi troppo. E poi c’è il mondo dei social che determina “appartenze” e anche gusti. Con il “nuovo ricambio di outfit” e microtrend che spesso durano poche settimane. Forse, ed è l’idea comune degli autori di molte inchieste che riguardano il settore del fashion, è arrivato il momento che il mondo della moda, nella sua globalità, si avvii verso un vero cambiamento strutturale. Diventando certo sostenibile ed etico, ma anche accattivamene e soprattutto economicamente accessibile.

La Repubblica

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